mercoledì 30 aprile 2014

Un mortaccio in più!

Riva sindaco di Taranto? Lapsus freudiano...
Il padrone ringrazia e se ne va.


Morto Riva, il sindaco di Taranto: “Il futuro dell’Ilva è un’incognita”

Pensa al futuro della città di Taranto, il sindaco Ippazio Stefano, dopo avere appreso la notizia della morte di Emilio Riva, storico presidente delle acciaierie Ilva. «Non vorrei, anche se non conosco bene le dinamiche in corso, che questa morte ostacoli in qualche modo il già lento e difficile percorso di risanamento ambientale».
 I dubbi del primo cittadino si concentrano sul gruppo, il cui destino è reso ancora più incerto dalla scomparsa del presidente. L’Ilva infatti è commissariata e necessita di ingenti investimenti, mentre si cercano eventuali partner esterni. «Non sappiamo cosa farà ora la famiglia Riva, continua il sindaco. Leggiamo di eventuali acquirenti interessati a rilevare lo stabilimento. In un caso o nell’altro, per noi il governo resta punto di riferimento e di garanzia». «Ammesso che le trattative possano decollare, i nuovi proprietari dovranno dare garanzie dal punto di vista occupazionale e ambientale’’.
 Anche il segretario generale del Cgil di Taranto Luigi D’Isabella invoca la presenza e la «responsabilità del governo e del potere pubblico rispetto alla situazione dello stabilimento». «È importante in questa fase così delicata - osserva ancora il sindacalista - che non ci siano ulteriori elementi di difficoltà. Questa partita vede in campo vari attori: la proprietà, il sistema bancario, eventuali nuovi soci, il commissario di governo. Credo che oggi, a maggior ragione, ai massimi livelli si debba prendere in mano questa vicenda perché il futuro della siderurgia italiana dipende dalle condizioni di Taranto». La figura di Riva, secondo D’Isabella, «a Taranto è stata una figura che ha rivoluzionato, in molti casi in peggio, la situazione di questo stabilimento e bisogna fare i conti con una eredità pesante da tutti i punti di vista».
 Dopo la morte comunque arriva il commento di Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, secondo cui Riva era «un vero gigante della nostra industria». «Uno che, in ossequio al più puro e alto concetto di capitalismo, ha saputo rischiare con i suoi mezzi, senza mai chiedere nulla allo Stato. Impresa non proprio semplice, ma, soprattutto non molto frequente nel nostro Paese, dove - come noto - hanno abbondato, e abbondano, invece, i capitalisti senza capitali». 
Che il Riva ragionier Emilio fosse un uomo tutto d’un pezzo, un duro, un padrone d’altri tempi, lo testimonia una ricca aneddotica. Non si sa come abbia reagito nel luglio del 2012 alla notizia degli arresti domiciliari disposti per lui, classe 1926, dal gip di Taranto, Patrizia Todisco. A Caronno Pertusella (Varese), dove nel 1957 costruì il suo primo stabilimento siderurgico, però, ricordano ancora quel che disse mentre lo arrestavano nel 1975, accusato di omicidio colposo per un incidente sul lavoro: «Finchè non esco io, la fabbrica resta chiusa e senza lavoro». All’epoca fu bollato come fascista e sfruttatore, ma in realtà anche allora, come oggi, ha sempre avuto una grande capacità e abilità nel coinvolgere dirigenti e lavoratori dei suoi stabilimenti.
Come a Genova, nel 1998, con la città squassata dal conflitto fra lavoro e salute, una Taranto in scala minore, con la ciminiera dell’altoforno che spargeva i suoi veleni su Cornigliano e dintorni. E lui che ti combina? Invita al ristorante seicento operai che lavoravano con lui da dieci anni, da quel 1988 in cui rilevò lo stabilimento proprio dall’Ilva di cui nel frattempo (1994) era diventato il padrone assoluto. Per tutti abbondanti libagioni, buoni vini e un piatto d’argento.
 «Io non sono un capitalista, ma un imprenditore industriale - ha detto in una delle sue rare interviste - I capitalisti comprano le aziende, le risanano, le rivendono. Vanno in Borsa. Speculano. Io sono diverso. Sono un datore di lavoro». Nei posti di comando del gruppo fondato insieme al fratello Adriano solo figli e nipoti: il primogenito Fabio, 60 anni, delfino designato, i fratelli Claudio (uscito dal gruppo avviando un’attività di armatore e poi richiamato sull’onda della bufera giudiziaria), Nicola e Daniele (avuto dalla seconda moglie, una principessa etiope), i nipoti Cesare e Angelo. Una squadra di manager fatti in casa, svezzati da lui, stessi metodi, uguale grinta. Quasi tutti finiti, ovviamente, nel tritacarne delle inchieste.
Per i Riva pochi svaghi e tanto, tanto lavoro. Soprattutto, lontano da salotti, lobby e consorterie. Solo Emilio si era concesso una frequentazione, discreta, con Silvio Berlusconi, tanto da rispondere alla chiamata dei “patrioti” in cordata per l’Alitalia. In cambio, sostengono le accuse, della libertà di azione a Taranto: impianti spremuti e pochi investimenti per ridurre il terribile impatto ambientale su Taranto. Il vecchio patriarca preferiva ricevere i pochi amici (come Giorgio Fossa o Cesare Romiti) a casa propria, mettendosi lui stesso dietro ai fornelli e cucinando strepitosi risotti. Dicono che sino alla fine tenesse i numeri principali del gruppo in un libriccino nero che portava sempre con sè in tasca: produzione, venduto, guadagni. Ricordando un principio fondamentale: bisogna mettere fieno in cascina per i tempi bui, visto che l’acciaio è un prodotto ciclico, si fanno ricchi guadagni, ma prima o poi si perde.
 Una saga, quella dei Riva, iniziata nel dopoguerra, quando il giovane Emilio, figlio di un commerciante di rottame, si comprò un vecchio Dodge americano per raccogliere e distribuire il rottame alle nuove imprese elettrosiderurgiche della pianura padana. Poi arriverà il primo stabilimento di Caronno Pertusella. E da allora, dal 1957, nel gruppo si festeggia quel 7 marzo nel quale la fabbrica cominciò a produrre e tutto ebbe inizio.
Senza di lui il destino del gruppo è ancora più denso di incognite. L’Ilva è commissariata e necessita di ingenti investimenti: almeno 4 miliardi. La famiglia Riva, senza il collante del vecchio leone Emilio, è divisa fra chi vuole gettare la spugna e chi vorrebbe proseguire, magari con un partner estero. Rimane il commento del presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, che nonostante tutto rende omaggio al “ragiunatt dell’acciaio”. «Abbiamo perso un grande imprenditore, un vero capitano d’industria. Non lo dico per dovere istituzionale, ma per il dovere morale di riconoscenza che, come operatore del settore, e, consentitemi di dirlo, come italiano, sento di dover esprimere nei suoi confronti». (LaStampa)

Morto Emilio Riva, il patron dell'acciaio e dell'Ilva di Taranto

E' morto nella sua villa di Malnate (Varese), a 88 anni, Emilio Riva, il patron dell'omonimo gruppo dell'acciaio. Lo aveva fondato negli Anni Cinquanta, ma il salto è avvenuto con l'acquisto a metà degli anni Novanta dell'Ilva di Taranto, oggi nota più che altro per le sue vicende giudiziarie legate ai danni per la salute dei cittadini e dei lavoratori pugliesi. L'azienda siderurgica, sotto inchiesta e commissariata, è affidata alle cure di Enrico Bondi.
Dopo le morti di Luigi Lucchini e Steno Marcegaglia, si tratta di un'altra scomparsa illustre come a indicare la fine di un periodo industriale. "Abbiamo perso un grande imprenditore - scrive in un messaggio rivolto alla famiglia il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi - un vero capitano d'industria, e non lo dico per dovere istituzionale, ma per il dovere morale di riconoscenza che, come operatore del settore, e, consentitemi di dirlo, come italiano, sento di dover esprimere nei suoi confronti".
Eppure la storia di Riva, dopo i fasti del passato, ha avuto un epilogo drammatico. Nel 2012, il patriarca di una delle famiglie più importanti della siderurgia italiana era stato raggiunto da un'ordinanza di custodia cautelare nell'ambito della maxi-inchiesta della procura di Taranto sull'inquinamento ed il disastro ambientale causato dallo stabilmento dell'Ilva. In quel luglio, con un provvedimento destinato a segnare la storia industriale italiana, il gip Patrizia Todisco, ha stabilito il sequestro senza facoltà d'uso dell'intera area a caldo dell' Ilva, perché l'impianto ha causato e continua a causare "malattia e morte", anche nei bambini. E "chi gestiva e gestisce l'Ilva ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza".
A un anno di distanza, nel luglio del 2013, Emilio Riva - insieme al figlio Nicola - ha lasciato il regime detentivo al quale era stato condannato. Era uno dei 53 imputati per i quali la Procura di Taranto ha chiesto al gup Wilma Gilli il rinvio a giudizio con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, nel processo che comincerà il 19 giugno prossimo.
 Il patron aveva a dire il vero lasciato la presidenza dell'Ilva oltre un anno prima che esplodesse l'inchiesta e gli era subentrato il figlio Nicola. Quest'ultimo è stato presidente sino ai primi di luglio 2012, quando già i provvedimenti della magistratura erano nell'aria e l'inchiesta in una fase molto avanzata. A Nicola Riva è subentrato ancora, come presidente dell'Ilva, l'ex prefetto di Milano Bruno Ferrante, che ha gestito i momenti più difficili della vicenda e che poi si è dimesso dalla carica, insieme a tutto il cda, nel maggio del 2013, all'indomani del sequestro da 8,1 miliardi disposto dal gip di Taranto sui beni e sui conti della capogruppo Riva Fire. Dall'agosto del 2013 l'Ilva, l'acciaieria più grande d'Euopa, è stata affidata dal governo al commissario Enrico Bondi, che già in precedenza aveva svolto l'incarico di amministratore delegato.
Alla vicenda giudiziaria e ambientale di Taranto, per Emilio Riva si è intrecciata quella avviata dalla Procura di Milano, dove il gup Anna Maria Zamagni lo ha rinviato a giudizio insieme a due ex dirigenti del gruppo e un ex manager della filiale di Londra di Deutsche Bank, in relazione a una maxi evasione fiscale da 52 milioni, che risale al 2007. Secondo l'accusa sarebbe stata creata una società ad hoc con sede in Svizzera, l'Ilva Sa, per aggirare la normativa (la 'legge Ossola') sull'erogazione di contributi pubblici per le grandi aziende che esportano all'estero.
Prima di questi ultimi risvolti giudiziari, la storia di Emilio Riva affonda negli anni Cinquanta, quando a Caronno Pertusella ha aperto il primo forno elettrico. Il 'ragiunatt' - come amava farsi chiamare, anche se di recente aveva ricevuto una laurea ad honorem in ingegneria - aveva cominciato da raccoglitore di rottami di ferro, per poi diventare negli anni del boom economico un vero e proprio imprenditore dell'acciaio nel Nord dell'Italia ed anche all'estero, con numerosi stabilimenti produttivi. L'acquisizione dell'Ilva di Taranto è avvenuta nel 1995, nell'ambito delle privatizzazioni dell'Iri, per una cifra molto discussa: 1.450 miliardi, un investimento che si è rivalutato di una decina di volte nel giro di una decina d'anni. Giusto per rendersi conto del peso dell'Ilva sul gruppo Riva, l'acquisizione porta nel giro di un anno a un balzo della produzione d'acciaio da 6 a 14,6 milioni di tonnellate e da 5 a 12,8 per i laminati. Oggi, nel complesso, il gruppo Riva dispone di una ventina di siti produttivi, di cui sei in Italia, per un giro d'affari da una decina di miliardi. (Rep)

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