venerdì 21 giugno 2013

Cattivo giornalismo ovvero la voce del veterocolonialismo polentone

A volte capita che certi giornalisti "pragmatici" dichiarino di guardare lontano mentre, a ben vedere dimostrano una miseria di argomentazioni e un grave difetto di miopia.
A leggere questo articolo verrebbe da sperare che questo editorialista abbia subito "imboccamenti" di parte o voglia tutelarsi la carriera nel quotidiano dell'establishment, piuttosto che pensare davvero ciò che scrive. Magari ha un mutuo, moglie disoccupata o figli che vogliono fare viaggi in paesi lontani e costosi...
Il nesso tra: il fatto che le regioni meridionali d'Italia non abbiano un numero rilevante di grandi gruppi industriali autoctoni (una scoperta dell'acqua calda in piena regola) con le loro caratteristiche economiche (anche queste scontatissime); e la necessità (o il ricatto) di governi locali supini ed accondiscendenti che devono competere in "disponibilità" e svendita territoriale, è una tesi antiquata e fallimentare che balza immediatamente agli occhi anche del più ignorante dei lettori.
Non occorre sottolineare quanto la competizione e i mercati globalizzati abbiano invalidato le politiche di colonialismo industriale interno e le gerarchie territoriali.
Lo sviluppo dei paesi avanzati oggi (a meno di non ritenerci un paese del terzo mondo...) poggia unanimemente sul piano della relazione tra politiche locali, nazionali e comunitarie improntate alla pianificazione infrastrutturale ecocompatibile, alla sostenibilità della produzione, all'innovazione e alla valorizzazione del know-how e del capitale locale.
Un esempio su tutti, oggi, nonostante la sconvenienza economica rispetto ai paesi in via di sviluppo, le grandi industrie stanno rientrando negli Stati Uniti in seguito all'avvio di una strategia di ottimizzazione dei costi a livello federale e spinte dalla necessità di garantire la distribuzione di capitale interno in un paese con una domanda forte che si riconosce in un prodotto proprio.
Ma questi argomenti sono troppo difficili per il nostro piccolo giornalista che deve pensare al mutuo..
Peccato che non si accorga di essere lui stesso burattino volontario di quel sistema che oggi deprime i suoi voli di intelligenza.

Perché i grandi gruppi scappano

Da Om a Bridgestone, mettendo da parte il caso sui generis dell’Ilva, le grandi imprese non «made in Puglia» sono in fuga dalla regione. La Banca d’Italia le chiama «unità locali di proprietà esterna nell’industria pugliese» e nel report sull’economia regionale presentato di recente ha dedicato loro un intero paragrafo. Perché — spiegano gli analisti del centro ricerche della filiale barese — «la struttura industriale pugliese si caratterizza per una rilevante presenza, accanto alle aziende regionali, di stabilimenti e imprese appartenenti a gruppi del Centro Nord o esteri». Una presenza che trae in parte origine dall’intervento straordinario realizzato con la Cassa per il Mezzogiorno e, più recentemente, da strumenti d’intervento pubblico finanziati con fondi comunitari, nazionali o regionali. Molte di queste realtà produttive continuano a ricoprire un ruolo rilevante nell’economia regionale e nel corso del decennio scorso — in presenza di un ridimensionamento della manifattura regionale rispetto al sistema economico nel suo complesso — hanno accresciuto il proprio contributo alla formazione del valore aggiunto, degli investimenti e dell’occupazione del settore industriale pugliese.
Insomma, quando si affrontano le vertenze di queste aziende, bisogna essere ben consapevoli che si tratta di gruppi che in periodi positivi crescono più degli altri e che in quelli di crisi reggono meglio. Lo dimostrano i numeri della Banca d’Italia, aggiornati al 2010, anno in cui «le unità locali di proprietà esterna con oltre 100 addetti nel comparto manifatturiero erano poco meno di un terzo del totale degli stabilimenti industriali delle medesime dimensioni operanti in regione, rappresentando poco più di un quarto del valore aggiunto e degli investimenti del comparto manifatturiero della regione e circa un sesto degli occupati». Se con un sesto degli occupati producono un quarto del valore aggiunto è evidente che si tratta di aziende a maggiore intensità di capitale rispetto alla media pugliese, di aziende che possono permettersi maggiori investimenti iniziali e che con più difficoltà li possono ridurre in tempi di crisi. E per questo anche «in discesa» sorpassano le aziende locali.
Il conforto arriva ancora dai numeri: il peso del valore aggiunto delle unità locali a capitale esterno sul totale manifatturiero pugliese è passato dal 23,8% del 2003 al 30% del 2007 (periodo ante-crisi) fino al 26,4% del 2010; ancora più evidente il balzo negli investimenti: dal 17,4% del 2003 al 27% del 2007 fino al 27,7% del 2010, così come per gli occupati (dal 14% del 2003 al 14,5% del 2007 e al 16,7% del 2010). In pratica, la grande azienda che proviene dall’esterno della regione permette di diversificare il settore industriale (siderurgia, gomme e motori, per gli investimenti necessari, difficilmente potrebbero essere «made in Puglia») e accresce gli investimenti. Ma c’è un però, che oggi è sotto gli occhi di tutti ma forse fino al 2007 (negli anni delle vacche grasse) è sfuggito: quando una di queste aziende non pugliesi decide di andar via, lascia un buco da un migliaio di disoccupati. E se l’artigiano pugliese difficilmente lascerà la sua terra, la grande impresa nazionale e multinazionale se non trova più convenienza (dai costi dell’energia alla logistica) se ne va in un attimo. Om (250 dipendenti) e Bridgestone (mille) a confronto dell’Ilva (12 mila) rappresentano una settimana e un mese rispetto all’anno. I pugliesi, ambientalisti e non, lo tengano a mente.

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